Caterina Bendotti
Sono nata a Vilminore di Scalve in provincia di Bergamo, ho 63 anni e ho un figlio di 26 anni. Il periodo che stiamo vivendo, in particolar modo il momento più acuto di diffusione del Covid-19, ha indotto me e i miei collaboratori a sperimentare un nuovo modo di lavorare. Tramite skype abbiamo potuto continuare a discutere dei dati che avevamo ottenuto prima dell’emergenza, soffermandoci un po’ di più per elaborare il loro significato e programmare nuovi esperimenti, e questo per certi versi è stato positivo. Il fatto di non poter fare immediatamente l’esperimento ci ha permesso di riflettere di più e quindi di pianificare meglio il passo successivo.
La passione per la propria ipotesi talvolta è travolgente ma è anche il sale della vita del ricercatore. Abbiamo avuto più tempo anche per consultare la letteratura scientifica e farci venire nuove idee. Comunque ci rechiamo anche in laboratorio, a turni, perchè non possiamo interrompere gli esperimenti che stiamo conducendo perché vorrebbe dire vanificare il lavoro di tanti mesi. In questo periodo mi capita spesso anche di guardare articoli che stanno emergendo sul COVID 19. L’infiammazione, che è tra le cause principali della polmonite acuta nei pazienti affetti da COVID-19, è un processo patologico che avviene anche nelle malattie neurodegenerative tra cui la SLA. Perciò dalla ricerca dei farmaci antiinfiammatori per migliorare i sintomi della COVID19 potrebbero emergere informazioni utili anche per la SLA e viceversa.
Ho iniziato a lavorare nel laboratorio di neurofarmacologia presso l’istituto Mario Negri, come tecnico, molti anni fa. Assistevo alle discussioni dei risultati e lo spirito investigativo di capire come mai un certo farmaco funzionava in un modo piuttosto che in un altro e qual era la conseguenza del suo trattamento, mi affascinava. Perciò grazie al sostegno e allo stimolo da parte del Dr. Rosario Samanin, il mio mentore e capo laboratorio, e del Professor Silvio Garattini, allora direttore dell’Istituto e oggi presidente, ho deciso di laurearmi in Farmacia e continuare la mia carriera di ricercatrice. Da loro ho imparato l’importanza del metodo scientifico, del suo rigore e del giusto senso critico che sono alla base della ricerca. Il Prof. Garattini, in particolar modo, è stato ed è un modello di riferimento: di lui ammiro la sua libertà di pensiero, il suo coraggio e la sua determinazione oltre alla capacità di comunicare informazioni complesse con semplicità.
Tra le esperienze formative all’estero davvero importanti c’è quella del 1986 nel Dipartimento di Fisiologia della Johns Hopkins University di Baltimora negli USA. Grazie al mio mentore il Dr. Roger Reeves, biologo molecolare e specialista di genetica dei topi, ho imparato a studiare il DNA e i geni e a lavorare con i modelli murini di malattia. In quel laboratorio si studiava il modello della sindrome di Down e il mio progetto consisteva nello studio della neuro-degenerazione in questo modello. Dopo due anni sono rientrata nel laboratorio di neurofarmacologia dell’istituto Mario Negri e il Dr. Samanin mi ha dato la possibilità di iniziare un mio progetto di studio proprio sulla neurodegenerazione.
Quando ho iniziato a studiare modelli murini con delle alterazioni a livello dei motoneuroni, sono stata colpita dalla durezza e dalla gravità della SLA. Da quel momento ho capito che la ricerca aveva ancor più senso nella mia vita con un obiettivo molto chiaro, riuscire a trovare una cura per i malati di SLA.
Grazie allo studio dei modelli murini con la prima mutazione genetica associata alla SLA nell’uomo, la SOD1, sappiamo che la SLA è una malattia molto complessa che coinvolge vari sistemi dell’organismo e varie cellule oltre al motoneurone. La sfida è ora quella di capire da dove inizia e come si sviluppa al fine di combatterla prima che il processo diventi irreversibile. E’ un obiettivo ambizioso ma irrinunciabile.Certamente il sostegno di AriSLA è fondamentale per portare avanti i nostri studi, l’ultimo che stiamo svolgendo ha lo scopo di identificare potenziali marcatori prognostici ed eventuali nuovi obiettivi terapeutici.
Penso che la SLA non sia invincibile ma per combatterla bisogna conoscerla. Questo è ciò che mi spinge tutti i giorni a trovare indizi, fare ipotesi, verificarle sperimentalmente pronti a cambiare rotta. Purtroppo la ricerca è fatta di tentativi, successi e fallimenti ma ciò che ho imparato dai miei mentori e che cerco di trasmettere ai miei collaboratori è che il fallimento è il risultato più vicino alla verità perché obbliga a vedere oltre. I risultati che rispecchiano totalmente le aspettative spesso non portano lontano. Ho incontrato diversi malati di SLA tra cui un amico, ricercatore come me. Lui mi trasmetteva forza, coraggio e vita e io non sapevo dargli una cura. Questo è stato un ulteriore motore alla mia motivazione.
Una delle mie passioni è la montagna. Trovo che ci siano delle analogie tra andare in montagna e fare ricerca, in entrambi i casi avviene un turbinio di adrenalina nel proprio corpo prima di raggiungere la vetta o il risultato atteso. Il mio sogno nel cassetto? Fermare la progressione della SLA nei modelli murini per poi fermarla nei pazienti. (data pubblicazione 19/5/2020)